E poi vennero i bambini, con fasci di rose bianche.

Il giorno in cui seppellirono Lo Strambo in paese si tenne anche il matrimonio di Clementina Maria Lucrezia Underbridge di Valfiorita, Marchesa di Montesano con il Duca Alfonso Maria Goffredo di Millequaglie Chardonnay, Principe Tenutario di Cursi e Morigino, Barone di Ovafritta e Grande Elettore di Sassonia Palatinato.

Alle sei e un quarto del mattino di quel tredici di settembre, il dottor Augustino Perché venne svegliato di soprassalto da una gragnuola di colpi picchiati con insistenza alla porta della sua stanza nell’albergo Stella d’Oro, dove aveva deciso di vivere da quando, trentacinque anni prima, aveva messo piede nel paese di Tricase di Sotto.

Augustino Perché era il medico condotto del paese. All’epoca dei fatti aveva sessantatré anni suonati ma era ancora in grado di vestirsi e farsi la barba, giacché a pulire pensava il personale dell’albergo, ossia la bella Idrusa, giovane tutto fare, un po’ puttana un po’ psicologa, e a tutto il resto pensava la governante Gesua, donna maestosamente baffuta, dalle inesauribili capacità e dalla lingua tagliente.

Alle sei e un quarto, la bella Idrusa aveva già lasciato la stanza del Dottor Augustino, il quale strafottendosene beatamente della ferocia di quei colpi bussati, si stirò, si accomodò facendo molta attenzione a posare per terra prima il piede destro e poi il sinistro, invocò con metodo e perizia l’intero calendario dei santi e beati, svuotò sonoramente l’aria in eccesso e poi, con

calma serafica, si alzò e aprì la porta. Sul pianerottolo c’erano il sagrestano della chiesa matrice, Oronzo e il maresciallo dei Reali Carabinieri, Primigio Lamarmora. Lamarmora, come il generale, ma non erano parenti. Entrambi indossavano l’abito buono, il sagrestano vestiva quello del matrimonio della sorella Maddalena, avvenuto nel dicembre di otto anni prima, nero di un pesante panno invernale, ormai consumato sui gomiti e sulle ginocchia oltre che, con rispetto parlando, sul culo. Da una tasca della giacca facevano capolino le punte di un grosso mazzo di chiavi, probabilmente quelle della chiesa matrice.

Il maresciallo Primigio Lamarmora indossava la divisa delle cerimonie importanti, quella con i galloni dorati e il pennacchio rosso sul cappello. “Un pappagallo”, pensò il dottore.

Dio sia lodato, dottor Augustino, pensavamo che non fosse in casa. – si buttò a dire Oronzo.

E dove cazzo dovrei essere a quest’ora, deficiente?

Ci scusi, è che lei non apriva e…

Ci perdoni, – esordì il maresciallo, – se la disturbiamo a quest’ora antelucana ma ci corre, purtroppo, l’obbligo di richiedere la sua presenza. –

E cosa diamine sta succedendo?

Una faccenda delicata, Sua Eminenza in persona… – cercò di dire Oronzo ma venne zittito con uno sguardo dal maresciallo.

Gli è che Lo Strambo, come lei già sa, ha tirato le cuoia ieri mattina, con rispetto parlando.

E beh?

E lei sa pure che, secondo le leggi umane e divine, una salma deve essere presentata dinanzi a Dio entro ventiquattro ore, ossia, entro questa mattina, anche se la salma in questione è quella di un dissoluto puttaniere, baro e alcolizzato, che Dio abbia pietà della sua anima.

Porco mondo, e ci mancherebbe pure! – tuonò Don Augustino, ripensando alle notti trascorse insieme al defunto nel bordello della Zotica, sulla via vecchia del porto.

Il maresciallo sudava copiosamente, comprendendo che la faccenda diventava complicata, essendo il dottore non proprio bendisposto ad ascoltare le loro ragioni.

Il maresciallo conosceva bene il rapporto di rara amicizia che legava il medico condotto allo Strambo. In fondo, era il maresciallo dei reali carabinieri, diavolo!

Eppure, non era mai riuscito a capire cosa potesse unire un delinquente come Lo Strambo, dedito al furto e all’alcol, frequentatore di puttane e truffatore, ad una persona così educata ed erudita come Augustino Perché, medico e droghiere.

Don Augustino, da parte sua, aveva capito subito quello che volevano quei due ridicoli ambasciatori del Vescovo, Ildefonso Maria Rosario Stellamaris de Finibusterrae, conosciuto dai frequentatori dell’Oratorio come La Signora. Aveva sessantatré anni, Augustino, ma non era ancora scemo. Anzi, il suo cervello aveva, già dalla sera prima, previsto quella visita improvvisa e fastidiosa. Ed ecco che ora, di fronte a quei due comprimari, aveva tutta l’intenzione di godersela: “se quel gran paraculo del Vescovo vuole che il matrimonio della vergine marchesa non venga turbato dall’arrivo di una salma, e che salma! Può anche scomodarsi di persona”, ridacchiava tra sé, pensando alla “vergine marchesa” di cui conosceva un paio di fatterelli assai interessanti.

Ecco, – riprese Oronzo, – Sua Eminenza, dottore, pensa che il caso della morte improvvisa dello Strambo richieda di… aprirlo un po’ e vederci dentro, ché si potrebbe anche pensare che non si tratta di morte accidentale. –

Boia di un cretino, intanto si dice “fare un’autopsia”. E poi che ne sai tu? Non sarai stato mica tu ad ammazzare Lo Strambo, eh? Eh, sì. Ora che ci penso bene, non stava mica male, anzi. E come lo hai ammazzato? Veleno? Parla, bestia! – trattenendo a stento le risate ma mostrando una faccia offesa e disgustata, aggredì il povero Oronzo che, a dire il vero, non era esattamente una persona di grande intelligenza.

Eh, sì”, pensava Augustino, “giusto il tempo di celebrare il matrimonio senza avere tra i piedi degli straccioni. Alla faccia dei beati poveri che saranno i primi.

Ora bisogna spiegare che Augustino Perché era un bevitore accanito. E un baro alle carte, motivo per cui nessuno dei signori voleva più giocare a poker con lui al circolo. Di questo non si lagnava, a lui piacevano le interminabili partite giocate con Lo Strambo al tavolino sulla veranda del bordello della Zotica, partite leggendarie, commentate per mesi dagli anziani del paese, giocate con un numero imprecisato di Assi e altre carte, con regole inventate lì per lì e accettate esclusivamente per la loro genialità.

Augustino Perché era tutto questo e anche di più. Ma aveva un difetto: era leale con i suoi amici. Per questo ne aveva pochi, di amici. E uno di questi amici era Lo Strambo.

Lo Strambo era iscritto all’anagrafe del paese come Antonio Sparascio, di Luigi e Giuseppina Scarascia, classe 1866, senza fissa dimora, dalla fedina penale più lunga del santo rosario. Era di corporatura esile, più basso di Augustino di almeno una testa, coi pochi capelli già bianchi nonostante al momento della sua morte avesse appena quarantasei anni. Era nato truffatore, abbindolatore sopraffino, capace di rigirare le frittate, come diceva ridendo Augustino, a suo piacimento. E di questo erano stati testimoni non pochi stranieri, capitati per caso a Tricase di Sotto e finiti nelle spire di quella serpentesca canaglia. Si avvicinava sorridente e gioviale alle sue vittime, valutandone il peso in denaro e offrendosi di consigliare spassionatamente un bistrot, un alloggio, di indicare un indirizzo. “Ma vi ci accompagno io, tanto non ho niente da fare, in questo momento”. Le vittime non finivano di ringraziare per tanta cortesia che già si ritrovavano avviluppate nelle spire di quel farabutto, che gli spremeva il portafogli ora qui, nel miglior ristorante del paese, con il quale faceva a mezzo del guadagno, ora lì, nell’albergo più pulito, dove prendeva la percentuale. Spesso li accompagnava in gite turistiche dei quartieri popolari, nelle quali decantava bellezze inaudite e probabilmente mai esistite, come le storie che raccontava. Da vero professionista, fingeva di rifiutare qualsiasi compenso per sé e finiva per prendersi tutto.

Ma con la povera gente era diverso. Non si contano, e forse non si conteranno mai, le volte in cui si era intrufolato a rubare in casa del Marchese, per procurare il bisogno di una famiglia disperata. Cose così si raccontavano, in paese, e nel passaggio da una bocca all’altra si ingrandivano e diventavano leggende. E così si diceva che un giorno Lo Strambo era riuscito a rubare la collana di diamanti della Marchesa madre, custodita nella cassaforte a muro del castello e l’aveva sostituita con una di vetro fatta da un suo amico del nord, esperto orafo e truffatore anch’egli e, con il guadagno, aveva pagato le cure costosissime della figlia della Pagliara, che era gravemente malata. E il resto del ricavato se l’era giocato a carte nel bordello della Zotica, facendo vincere a poker, per tutta la nottata, uno che nemmeno conosceva, padre di sei figli, quasi sette perché la moglie era di nuovo incinta e lui aveva perso il lavoro di imbianchino ed erano ridotti alla fame.

Per sé, non teneva niente, il denaro non gli interessava. E per questo lo chiamavano Lo Strambo. Così, nonostante avesse contribuito al benessere economico del paese assai più della Regia Amministrazione, ed in verità meritasse almeno un mezzo busto nella piazza centrale, al posto della statua del bisnonno del Marchese, era morto in assoluta povertà, tra le braccia della bella Idrusa, vomitando l’ultimo sorso di rum sull’unica camicia, sfilacciata alle maniche, che portava sempre arrotolate, e sui pantaloni di lino grezzo che un tempo erano stati bianchi e che adesso erano color della terra, come la camicia.

La morte dello Strambo fece ben presto il giro dei quartieri popolari di Tricase di Sotto e, subito, centinaia di poveracci, ubriaconi, padri e madri, e anche qualche bella figliola, si ritrovarono sulla porta del bordello della Zotica, sulla via vecchia del Porto, dove era stata allestita la camera ardente.

La Zotica aveva fatto preparare il bel salotto francese oscurando con pesanti tende a lutto le grandi finestre e facendo bruciare gli incensi mentre le ragazze, tutte vestite a lutto, avevano addobbato il catafalco con un panno viola ricamato a mano, circondato da alti ceri funebri montati su candelabri d’oro con il sigillo turrito con la quaglia e le tre stelle che era lo stemma del Marchese Underbridge di Montesano. Avevano lavato il corpo con spazzola e sapone, e poi con un trasparente e denso unguento di olio di rose, e lo avevano rivestito con un bellissimo abito azzurro alla moda. All’occhiello, una rosa bianca. Tra le mani, gli avevano messo un cappello di feltro, bianco come le scarpe fatte a mano per lui nella notte dallo Scalcagnato, il calzolaio del paese.

Per la prima volta nella sua vita, Lo Strambo non sembrava più strambo, anzi, sembrava uno straniero, ricco e importante. Non che a lui importasse qualcosa di sembrare ricco e importante, ma la tradizione voleva che ci si presentasse in ordine davanti a Dio.

Vestito così, chissà quanti stranieri di passaggio avrebbe potuto abbindolare, pensava il dottore, guardando quel corpo bianco e profumato come una puttana. Sorrideva. E rifletteva. E sì, perché Augustino amava pensare al senso delle cose. Effettivamente, il suo vero cognome non era Perché. E quando mai un uomo ha avuto un cognome del genere! No, il suo cognome era Mastrangeli, dottor Augustino Mastrangeli, diventato Augustino Perché in virtù della sua strana abitudine di chiedersi perché di tutto.

Molta povera gente, quella che lo aveva conosciuto o che ne aveva sentito parlare, era convenuta lì, al bordello della Zotica, e chi da solo, chi portandosi dietro l’intera famiglia, si mettevano in fila per rendere omaggio alla salma, con gli occhi sgranati davanti alle meraviglie di quel salotto francese, di quei candelabri d’oro e di quel morto che sembrava un nobile di schiatta e che invece era lo Strambo. Si inginocchiavano, pregavano, alcune signore piangevano, e questo non mancò di creare qualche imbarazzo familiare, nei giorni immediatamente successivi.

Ma più di tutti piangeva la Paolina, una delle ragazze del bordello, la più giovane, ventenne, bruna mulatta, fuggita da chissà dove e accolta dalla Zotica che gestiva, sì, un bordello ma che aveva un gran cuore oltre ad uno spiccato senso per gli affari.

Le ore passavano, ormai era notte fonda ma, complice la luna piena, nessuno accennava ad andarsene. E così, come sempre accade tra la povera gente, le donne presero a fare la spola tra le case e il bordello trasportando pentole e casseruole piene di cose da mangiare. Chi mai avesse procurato quella roba, ed era proprio tanta, nessuno avrebbe potuto dirlo, pensava il dottore, e rideva.

Lentamente, il dodici settembre diventò tredici e qualcuno cominciò a pensare di organizzare il corteo funebre. E più ci pensava, più cresceva la certezza che sarebbe stato un corteo indimenticabile, sontuoso e rumoroso come nessun altro. Con la banda e tanta gente, e il carro funebre trainato addirittura da quattro purosangue arabi. E il feretro, coperto di rose bianche e dietro la Paolina, la bellissima Paolina che piange a dirotto. E tutte le ragazze del bordello, belle e prosperose, a fare da cornice all’ultima passeggiata dello Strambo.

Nel frattempo, quel trambusto era arrivato alle orecchie del Vescovo, il quale comprese subito la gravità del fatto: alle dieci in punto era previsto il matrimonio della vergine marchesa Clementina con il Duca Alfonso Maria Goffredo di Millequaglie Chardonnay. Il corteo nuziale sarebbe partito alle nove in punto dal castello marchesale e avrebbe percorso corso Cavour e poi Piazza Umberto I per scendere su via della Riconciliazione e infine apparire sul Viale San Francesco, che conduce all’ingresso della Chiesa della Madonna del Carmine dove lui, Don Ildefonso Maria Rosario Stellamaris de Finibusterrae, Vescovo della diocesi di Tricase di Sotto e Alessano, avrebbe accolto gli sposi.

L’arrivo del corte nuziale alla Chiesa Madre era previsto per le nove e trenta.

L’eventualità da impedire a tutti i costi e che poteva costargli molto caro era che, alla stessa ora, da via Rimembranze giungesse anche il cadavere dello Strambo col suo seguito di ubriaconi e puttane. E che incrociasse, con il diritto di precedenza che spetta ai funerali, il corteo degli sposi.

Per questo, aveva inviato urgentemente un’ambasciata al dottor Augustino Perché. La pensata era, effettivamente, ben pensata: un’autopsia per meglio specificare le cause di quella morte improvvisa, non avrebbe destato maldicenze e illazioni nel popolo. Sarebbe stato, come dire, un atto dovuto.

Don Ildefonso avrebbe dovuto occuparsene personalmente, questo era un caso grave ma, essendo impedito a muoversi dai minuziosi preparativi della cerimonia, era stato costretto ad inviare il maresciallo dei Reali Carabinieri come ambasciatore e il Sagrestano Oronzo con lo scopo di sentire tutto e riferirgli personalmente.

Riferite a Sua Eminenza che, personalmente, non ho motivo di credere che la morte dello Strambo sia dovuta a cause diverse da un normalissimo cedimento del fegato e di alcuni altri organi interni a causa della scarsa qualità del rum servito nelle osterie di questo paese.  Purtuttavia, sarò felice di procedere ad un’autopsia, naturalmente dopo che l’autorità preposta, il qui presente Maresciallo Lamarmora, lo avrà richiesto ufficialmente.

E basta? – chiese fiducioso il maresciallo, immaginandosi che tutte le richieste dal dottore potevano essere soddisfatte in meno di due minuti.

Certo, nei tempi e nei modi che gli impegni del mio ufficio mi permetteranno. Visto che le leggi divine sono inderogabili, al contrario di quelle umane, come il Cristo al terzo giorno risorge puntualmente dalla morte e ascende al cielo, io fra tre giorni farò riesumare il corpo dello Strambo e lo farò ascendere al tavolo operatorio. — concluse Augustino, salutò, si voltò e richiuse la porta in faccia ai due ambasciatori. Di quello che fece il dottore nelle ore successive e di dove si fosse andato a ficcare, scomparendo dalla faccia di questa terra, nessuno saprà mai darvi conto. Sta di fatto che Sua Eminenza lo fece cercare ovunque, nelle bettole, nelle case, nelle campagne, finanche sui tetti. Niente. Scomparso.

Si fecero le nove e trenta. Il corteo nuziale era preparato e pronto a partire. Quando la vergine Marchesa fece la sua comparsa sul portone del castello, al braccio del padre, vestita di uno splendido abito bianco di pizzo cucito a mano a Venezia, con scarpe che sembravano di cristallo e un velo di Bruges a coprire il grazioso e giovane viso, lo strascico immenso di cui si perdevano le tracce nel buio dell’androne, sorretto da dodici paggi in livrea, gli invitati ebbero un sussulto e, con passo cadenzato, il corteo si mosse.

Prima venivano i Reali Carabinieri in alta uniforme, e al seguito gli alabardieri coi gonfaloni araldici, poi un tenero paggetto che portava il cuscino con gli anelli nuziali. Seguivano i bambini, divisi tra maschi e femmine in due file parallele, con la tunica bianca della prima comunione, che portavano grandi fasci di rose bianche.

Dietro a loro, secondo la tradizione, camminava il Marchese padre, al cui braccio incedeva, splendida e lucente, la sposa. A seguire, i testimoni, e alcuni tra i parenti più stretti.

Trainata da tre pariglie di cavalli andalusi, veniva la carrozza con il grande stemma turrito con la quaglia e le tre stelle, tutta dorata e con due lacchè a cassetta.

Chiudevano il corteo le carrozze dei testimoni, e a seguire, quelle degli invitati.

Al passaggio, dalle case lungo il percorso, petali di rosa rossa e bianca venivano lanciati ai piedi della sposa.

L’unica nota stonata, in quel meraviglioso corteo, era l’assenza della gente. Nessuno ad applaudire, nessuno a gridare “evviva!” o semplicemente a fare da ornamento e scenografia, sì che si potesse dire, un giorno, che il corteo era passato tra due ali di folla osannante.

Secondo il cerimoniale, alle dieci in punto, con altrettanta pompa, il Duca sposo fece ingresso nella chiesa matrice e si pose, in atteggiamento di regale attesa, ad aspettare l’arrivo della sposa.

Il Vescovo, che lo accolse, sudava copiosamente. Il motivo del suo imbarazzo era un rumore lontano, che nessuno sapeva decifrare ma che non presagiva niente di buono. Pure, pensava, sarebbe bastato che il corteo nuziale non tardasse quella mezz’ora. Sarebbe bastato alzare il passo, non tanto ma appena il necessario. E intanto sperava.

Alle dieci e trenta il corteo nuziale si materializzò su viale San Francesco. Il vescovo ebbe un sospiro di sollievo ma subito si gelò: una sguaiata milonga suonata a squarciagola da una banda sembrò materializzarsi sul viale. I reali carabinieri tentennarono, si guardarono indecisi sul da farsi e poi decisero di continuare. Solo, alzarono un po’ il passo. E così fecero tutti, la sposa, il marchese padre, i testimoni, i parenti più stretti e gli invitati.

Il Vescovo prese ad agitarsi. Il Duca sposo trattenne il respiro e giurò che qualcuno avrebbe pagato quell’affronto. Tutti guardavano un punto preciso, da cui era appena arrivata, esplodendo sul viale, la grottesca milonga della banda.

Quando i primi carabinieri del corteo nuziale giunsero sull’incrocio, un grido di “evviva!” si levò dalla Chiesa, ma fece appena in tempo a nascere che subito si strozzò, quando quattro bianchi e magnifici purosangue arabi, giunti da chissà dove e chissà come, con i finimenti neri e il pennacchio, fecero il loro ingresso sul viale, travolgendo i poveri militari e costringendoli a cedere il passo.

Il carro funebre attraversò, lento e solenne.

La vergine sposa, sotto il suo velo di Bruges, sorrise alla vista dello Strambo, come inseguendo un ricordo, ma non fece alcun cenno. Solo, lentamente, si inginocchiò. E con lei dovettero inginocchiarsi il Marchese padre, i testimoni, i familiari più stretti, infine gli invitati. Si inginocchiò anche il Duca sposo, dubbioso, sui gradini della chiesa, e il Vescovo venne accompagnato in sagrestia per un leggero mancamento, e tutti quanti si fecero da parte.

Passarono il carro e la povera Paolina piangente, disperata come la Madonna Addolorata ma assai più bella, passò il dottor Augustino Perché e la bella Idrusa, e tutte le puttane del bordello, e fu un gran bel vedere. Dietro veniva la banda, con la sua sguaiatissima milonga. Infine venne la folla, tanta quanta mai se ne era vista. E dietro, i carabinieri nelle loro alte uniformi e gli alabardieri, e il piccolo paggetto col cuscino con gli anelli nuziali.

E poi vennero i bambini, che portavano grandi fasci di rose bianche, infine venne il Marchese padre che conduceva al braccio la figlia Clementina Maria Lucrezia, e i testimoni, e i familiari, e gli invitati. Si fermarono, e restarono, immobili come statue di cera, fuori dalla chiesa.

Intanto, nella chiesa si fece silenzio. Qualcuno, il cui nome non si seppe mai, ordinò che i fasci di rose bianche fossero posti attorno alla bara, quando questa si presentò davanti all’altare maggiore, tutto addobbato a festa. Il figlio bastardo della Zotica, che aveva studiato un anno da seminarista, diede la benedizione e tutti quanti pregarono. Il dottor Augustino Mastrangeli, medico condotto di Tricase di Sotto e droghiere, conosciuto da tutti come Don Augustino Perché, fece una memorabile orazione funebre e poi si dispose accanto alla bara, a ricevere il saluto dell’immensa folla. Accanto a lui si mise la mulatta Paolina e poi venne la bella Idrusa, e la Zotica, e tutto il bordello. La gente iniziò lentamente a sfilare, chi salutando, chi stringendo una mano, chi abbracciando la povera Paolina, e anche questo non mancò di produrre imbarazzi familiari nei giorni successivi.

D’improvviso, in quel rispettoso silenzio, si udirono frasi concitate, rimproveri, poi minacce pronunciate a voce non troppo bassa: “non ti permetto, il tuo rango non ti consente, ricordati chi sei”. Poi nulla più. E sulla porta della chiesa, apparve in controluce la vergine sposa e istintivamente, come rispondendo ad un comando, la folla si aprì.

Meravigliosa nel suo abito bianco di pizzo di Venezia, pudicamente nascosta sotto il velo di Bruges e accompagnata da dodici paggi che reggevano l’imponente strascico, Clementina Lucrezia Underbridge di Valfiorita, Marchesa di Montesano, attraversò la grande navata centrale e si fermò davanti alla cassa coi resti mortali dello Strambo. Nessuno, tranne forse Augustino Perché, seppe mai cosa passasse per la testa della vergine sposa quando, con eleganza, si inginocchiò e pregò per un tempo che sembrò eterno. Poi si alzò, guardò per un attimo la mulatta Paolina ed uscì a sostenere gli sguardi velenosi e la rabbia sprezzante del Duca sposo, dei testimoni, del Marchese padre e di tutti gli invitati.

Ma a lei non importava poi tanto e, sotto il velo di Bruges, sorrideva. Ma questa è un’altra storia.