Razza di Caino, il tuo compito non è ancora finito.

Francesco di Assisi, Santo della Chiesa e Patrono d’Italia, abbracciava i lebbrosi e non si lavava con l’amuchina. Non indossava maschere, non rispettava il distanziamento sociale e non starnutiva nella piega del gomito. Vi guardo e penso.

Non è dai nemici che bisogna guardarsi, ma da coloro che si dicono amici. L’ho imparato dalla storia e dalla vita, fin da quando ho conosciuto il dolore e la mia sorte. Non ho mai avuto simpatia per il vostro Dio buono per tutte le stagioni, non sono mai stato cattolico pur avendomi imposto, i miei genitori, tutti i sacramenti possibili e immaginabili; non ho mai goduto della pace della fede, incapace di sedare il mio spirito indomito tra le fole dello spirto divino e le parabole dei santi. Ho sempre ritenuto che non vi sia peggiore orrore di una folla adorante di fedeli, che nelle omelie e nei fumi d’incenso ha smarrito la libertà dei propri pensieri, e negli slogan di partito e della società in-civile ha perduto la natura di Uomini liberi. Non ho mai provato piacere nel sussurrare all’ombra delle chiese le litanie di croci, di squartamenti, di dolore, di morte.

Io lo conosco il dolore, conosco la morte, lenta che ti spegne un po’ alla volta, che ti toglie la dignità prima della vita. E’ una morte che sa di piscio e medicine, sudore e cibo avanzato. E’ un’altra cosa il dolore, quello vero, altro da quello cantato e osannato tra i vostri incensi e gli ori. Provo pena per tutti coloro che godono attraverso la dolcezza di un dolore che trasfigura. Altri sono i miei ideali. Altri sono i motivi per cui giudico se la vita è degna di essere vissuta.

Eppure, non sono io il nemico da cui Francesco deve guardarsi. Le comari nei banchi delle chiese mi insegnavano, ai tempi della mia infanzia, che Francesco amava Dio attraverso le sue creature. Amava gli animali, amava gli uomini. Abbracciava i lebbrosi. Li cercava e li amava. Li cercava, dentro di loro e dentro la loro malattia affogava la superbia e metteva alla prova il suo amore per Dio. Non aveva paura, Francesco di Assisi, il poverello, il giullare, e chissà in quanti altri modi lo avete osannato pur di allontanarlo da voi. Lo guardo, ora, Francesco da Assisi, nella sua bella nicchia nella chiesa matrice del mio paese, una nicchia lavorata da mani più o meno sapienti – non tutti erano Michelangelo – e provo pena. Una chiesa come tante, piena come tante di raccomandazioni e divieti. E’ vietato l’ingresso agli animali. Un divieto vecchio, dimenticato da divieti più nuovi. Beh, esco. Dio qui non c’è. E nemmeno Francesco. Povero Francesco, lui amava tanto gli animali. Almeno, così dice mia nonna.

Vi guardo. Non ho mai amato la vostra fede incosciente e falsa. Ricordo ancora i momenti belli, quelli dei paramenti sacri, indossati con sfacciata arroganza, ricordo gli inchini, i baciamani, i sussurri fruscianti, ricordo ancora le processioni a squarciagola per riaffermare la vostra appartenenza al gruppo degli eletti: Dio è con noi. Di conseguenza, non è con voi. Non è con me. Ricordo i riti, l’unzione e tutti i simboli del potere divino sull’uomo e della sua onnipotenza sul creato. Ricordo e provo pena. Dove siete finiti? Dove sono Maria e Giuseppe, dove la mangiatoia, i pastori, i Magi? Dov’è la piccola albanese, dove il figlio di Dio, dove sono i suoi lebbrosi, gli appestati, gli ultimi?

E’ bastato un virus farlocco, uno scherzo di natura, per mettere a nudo ciò che siete davvero: niente. Si sono sciolti come neve al sole i vostri ideali, la vostra fede è diventata un imbarazzante sudario per la vostra dignità di in-fedeli. In quale piega dei vostri paramenti avete nascosto l’imbarazzante ricordo di Francesco da Assisi che abbracciava i lebbrosi per amore di Dio? Gli importava, a Francesco, di vivere o morire al di fuori di quell’amore? Avrebbe allontanato mai il lebbroso per paura del contagio? No.

O forse ora sì? Contrordine, fedeli. Svuotate le acquasantiere, fonte di possibile contagio e rinnegate i santi, i martiri della chiesa, folli provocatori e agitatori di coscienze. Perché quello erano: agitatori di coscienze. Favole sfuggite alla vostra volontà. Li avete utilizzati fin quando vi ha fatto comodo nascondere la vostra paura dietro parabole di coraggio, il vostro egoismo dietro fantasie di amore divino. Ora no. Ora avete paura. E allora, cosa importa se Dio è nudo? Che scappi più veloce del suo popolo, se vuol salvare la pelle, i lombi al vento, le membra rattrappite e gli occhi sgranati. E tutti voi in-fedeli, fuggite con lui. Stirpe di Caino, sali fino in Paradiso e sulla terra scaraventa Dio!

La vigliaccheria corre con voi, ovunque andiate. Cancellare la Morte, vivere a qualunque costo è la nuova parabola. Come sarà il prossimo santo? Uno di voi? Certamente uno come voi. Perché la paura ha bisogno di correre ma quando vi fermate a riprendere fiato, il tanfo che emana dai vostri corpi inutilmente disinfettati ammorba l’aria e la vergogna vi è ancora accanto. E allora a che serve cercare una giustificazione, una nuova interpretazione delle scritture, un nuovo santo da adorare, e nuovi paramenti e riti e formule ma, soprattutto, una nuova strega da bruciare? Come ai bei tempi in cui Dio era con voi. E di conseguenza non era con noi.

Vi guardo e provo pena. Vi conosco da sempre. Correte veloci per non pensare alla vostra condizione di svergognati. Un tempo vi inginocchiavate, proclamavate la vostra fede, a Dio consacravate i vostri figli per liberarli dal peccato e la vostra vita per salvarla dalle fiamme dell’Inferno. Un tempo cantavate inni di lode e vi proclamavate soldati di Cristo e vestivate i colori del martirio. Pensate con orrore alla possibilità di incontrare, per la vostra strada, Francesco di Assisi. Pazzo com’è, potrebbe venirvi incontro per abbracciarvi, fratelli in Cristo, dopo aver abbracciato un lebbroso. Chiamereste la polizia? Sì. Lo so. E tornereste a correre per non pensare. E ad odiare. Prima era un numero a identificarvi, ora è la mascherina: l’evoluzione della Bestia.

Beati i poveri di spirito, perché non capiranno la loro vergogna. Io, per me, continuo per quella strada ove riecheggiano forti e chiare le parole dell’Eroe caduto:

La mente alberga in sé stessa e in sé stessa può fare del Paradiso un Inferno e dell’Inferno un Paradiso

da “Paradiso Perduto” di John Milton