Cronache del XXI secolo

1

Quella del ventisei di novembre non fu un’alba come le altre. Peppa, che alcuni chiamavano Clara, era l’ultima trovatella del paese, un misto tra uno spinone e un dalmata, un cespuglio bianco e nero di pelo morbido e lanoso e dormiva tranquilla nel piccolo giardino di Rosetta, ch’era rimasta vedova da pochi giorni. Avrebbe potuto dormire in qualsiasi altro giardino, ce n’erano alcuni col prato inglese e le fontane d’acqua fresca da bere. Nessuno glielo avrebbe impedito (in paese, tutti le volevano bene e si prendevano cura di lei). No, lei aveva scelto quel giardino piccolo e scomodo per stare vicino a Rosetta. Doveva farlo, almeno lei, visto che i parenti erano quasi tutti morti e i figli erano emigrati in Australia. Erano giorni di dolore, per Rosetta e lei, Peppa, le stava accanto, buona buona e la guardava coi suoi occhi dolci e questo, a Rosetta, sembrava bastare.

La casa di Rosetta era una delle ultime attaccate al borgo originario di Ruffano e dal giardino si vedevano bene i Paduli e il reticolo di stradine che portava ai paesi vicini. Quella notte, Peppa dormiva tranquilla sotto il cespuglio di rose quando venne svegliata, poco prima dell’alba, da un rumore sordo e lontano e potè vedere la piccola colonna sferragliante di automezzi che entrava nel paese. La cosa le parve strana ma si limitò a seguire con gli occhi quel serpente borbottante e, quando l’ultimo fanale fu scomparso alla sua vista, si riaddormentò.

La pianura che circondava il borgo di Ruffano era nota come Paduli per via delle sue antiche terre invase dall’acqua e dalla malaria ma erano ormai passati secoli da quei tempi antichi e i terreni erano stati tutti bonificati e coltivati. Avevano conosciuto giorni felici di gente operosa e semplice, i giardini erano profumati dai fiori degli agrumi e ombreggiati dai grandi ulivi secolari e dalle querce che segnavano le piccole proprietà. Quella notte, però, erano soltanto terre abbandonate, nelle quali scheletri di ulivi agonizzanti accompagnavano lo sguardo dei viandanti ricordandogli la vanità della vita. Nessuno se ne occupava più, ormai. Gli ultimi contadini erano come quegli ulivi, scheletri che ogni mattina continuavano ad alzarsi all’alba e andavano, non potevano non andare perché quella era tutta la loro vita e sarebbe finita con loro.

Capitò così che, poco dopo l’alba di quel ventisei di novembre, i primi vecchi, a bordo dei loro Ape 50 che portavano nei cassoni i poveri attrezzi del mestiere vennero fermati da strani uomini con le tute nere, i caschi e le armi e rimandati a casa. Nei paesi vicini, a Supersano, a Taurisano come a Casarano, accadde la stessa cosa. La notizia si sparse rapida come tutte le notizie un po’ strane: sin dalle prime luci dell’alba, un’interminabile colonna di mezzi militari era stata avvistata lungo la statale 275. Alcuni di quei mezzi si erano staccati e si erano diretti versi i paesini ai bordi dell’ultima propaggine delle Serre salentine. A Ruffano erano arrivati che il sole, in Piazza del Popolo, stava appena iniziando ad accorciare le ombre della chiesa matrice. Si annunciava una bella giornata d’autunno, di quelle che ti fanno fare pace con Dio e con gli uomini. Una leggera tramontana attraversava le porte dell’antico centro storico e portava ristoro ai suoi abitanti.

Piazzetta Giangreco, Ruffano

E quando sono arrivato in Piazzetta Giangreco, mi hanno fermato. Erano in sei, tutti grandi e grossi, avresti dovuto vederli! Ma io non mi sono fatto intimidire. Saresti stata orgogliosa di me, Dulcinea.

E perché mai ti hanno fermato?

Questa è la cosa più incredibile. Dunque, il tizio che mi si è parato davanti era piuttosto giovane, almeno a giudicare dalla voce e da tutto il resto. Aveva un accento forestiero, forse friulano, della Carnia, direi. Indossava un’inquietante divisa nera ed era armato. Erano tutti armati.

Ma cosa volevano da te?

Dunque, il ragazzo con l’accento della Carnia mi si è parato davanti e mi ha chiesto cosa ci facessi lì.”

E perché mai voleva saperlo?”

Ah, non ne ho idea! Io, però, gli ho sorriso e gli ho detto: “io ci vivo, in questo paese. Lei, piuttosto, cosa ci fa qui?”

Proprio così, gli hai detto?”

Ovviamente! E lui, non ci crederai, in tutta risposta mi ha chiesto di esibire un documento.”

No!”

Invece sì.”

Vuoi dire che hai iniziato con la tua insulsa storia sui nomi davanti a degli energumeni armati?”

Ma, tesoro, tu non mi rendi giustizia! Gli ho solo domandato che tipo di documento volesse da me e, quando ha specificato “un documento di identità”, gli ho fatto gentilmente notare che, essendoci, proprio lì, dinanzi a lui, l’originale, cioè io, non c’era alcun bisogno di un documento di identità”.

Non dirmi che ti ha chiesto come ti chiami!”

Lo ha fatto. “Vittorio, mi chiami pure Vittorio”. Così gli ho risposto.

Oddio!”

E lui:Vittorio e poi?” Converrai che non potevo abbandonare il campo, dopo quella provocazione.

E certo che no…”

E così gli ho risposto: “Non Le basta? E’ già tanto, sa, perché io, solitamente, non mi chiamo. Anzi, a pensarci bene, a volte mi chiamano ma già quando mi chiamano accettano il fatto di non conoscermi se non come un insieme più o meno logico di sillabe unite tra loro secondo un certo ordine. Lo stesso ordine, per milioni di esseri viventi. Del resto, come potrebbero conoscermi, nel momento in cui pretendono di rinchiudere in un nome tutte le sfaccettature della mia esistenza, l’apollineo e il dionisiaco, i miei molteplici “io”…”

Hai dimenticato “l’incerta natura di uomo e Dio”…”

Ti sbagli, ma non prenderti gioco di me, tesoro. In che altro modo potevo difendermi se non con l’ironia, davanti ai loro mitra, assolutamente ingiustificati, alle loro tute nere, ai caschi, alle visiere abbassate! Sta succedendo qualcosa, qualcosa di brutto e non avevo altro modo per difendermi che ridergli in faccia.”

Tu sei pazzo!”

Lo so, ma ho anche dei difetti, sai?”

Scusami, è che a volte ho paura che tu possa cacciarti nei guai perché ironizzi su tutto e su tutti. Prima o poi, qualcuno…”

Sorridimi, tesoro! Non sono poi così sprovveduto, sai? E comunque, il friulano nero mi avrebbe volentieri mandato al diavolo. Ho avuto la netta sensazione che fosse costretto a comportarsi così, come se qualcuno lo avesse obbligato a stare lì, vestito come il cattivo dei film hollywoodiani , a intimorire la gente, fermando tutti e chiedendo documenti, facendo domande stupide come “che ci fate qui?”. Sì, credo che stia per succedere qualcosa!

Non sarai troppo pessimista? Hai letto i giornali, in questi mesi, no? Probabilmente, si tratta di misure di sicurezza. Almeno, così dicono. E poi, ti hanno lasciato andare, no?”

Questa, purtroppo, è la dimostrazione del fatto che ho ragione. Ma lascia che ti racconti tutto per bene. Ad un certo punto, ho creduto che volessero arrestarmi. Ed è stato in quel momento, proprio quando gli ho detto “Lei non ha il benché minimo senso dell’humor, sa?”, quando ho visto i suoi colleghi innervosirsi e avvicinarsi, che ho avuto la netta sensazione che tutto stava per precipitare. Ed è stato in quel preciso momento che è comparso Goffredo.

Goffredo?”

Sì, proprio lui, il mio amico d’infanzia. Pensa, non ci vedevamo da così tanti anni, da quando lui è partito per l’Accademia militare e io… beh, insomma, conosci la mia storia. Eravamo così giovani!”

Credevo che il tuo amico fosse un pezzo grosso dei Servizi speciali o qualcosa di simile…”

Infatti!”

Vuoi dire che hanno mandato uno come Goffredo a controllare i documenti di quattro contadini per le strade di Ruffano? Non può essere!”

Appunto! Ad ogni modo, è stato bello rivedere Goffredo. Ti ho raccontato che passavamo le estati proprio qui, in questa casa, io e lui? Suo padre, il Generale… era proprio un Generale di corpo d’armata, sai, coi baffi e tutto il resto. Io, però, non l’ho mai visto in divisa… un uomo con un gran senso dell’humor, ad ogni modo. Le nostre famiglie erano molto legate e Goffredo era spesso nostro ospite durante le vacanze estive.”

2

Piazzetta Giangreco è una piccola insenatura che si allarga tra i vicoli del borgo vecchio di Ruffano. A quest’ora, poco dopo l’alba, è deserta. Oggi, però, ci sono sette uomini, proprio all’imboccatura di via Ruffo. Sei di loro indossano una tuta nera, anfibi ai piedi e sono armati. Quello che sembra essere il loro capo è un ragazzone alto e dinoccolato, rosso di capelli che porta sulle mostrine i gradi di tenente. E’ lui che sta discutendo con qualcuno, in abiti civili, qualcuno che se ne va in giro a quest’ora.

Ha con sé un documento?”

E cosa se ne fa? Ci sono qua io, l’originale me. Ad ogni modo, se proprio ci tiene, può chiamarmi Vittorio.”

L’altro, in abiti civili, è un uomo sulla cinquantina, magro, di poco più alto del militare. Porta i capelli grigi pettinati con cura all’indietro e una ciocca continua a cadergli sul viso, mentre parla col soldato. Indossa un abito di lana leggera “principe di Galles” grigio chiaro. Ha modi gentili e una voce calda e profonda. Mentre parla, l’altro sembra in imbarazzo: vorrebbe mandare al diavolo quel tipo strano che sembra uscito da un romanzo russo dell’ottocento. Eppure, non può, non davanti ai suoi sottoposti. “Ma cosa diavolo mi importa di come ti chiami! Vattene al diavolo, tu e i tuoi discorsi strampalati e lasciami lavorare, ché sotto questa dannata mimetica fa un caldo boia!” questo vorrebbe dire ma, come sappiamo, non può. L’altro, da parte sua, sembra avere un desiderio matto di chiacchierare.

Vittorio e poi?” chiede il soldato, controvoglia.

Vittorio non è sufficiente?”

No!”

Strano. Nome proprio, maschile, derivato dal latino, addirittura. Significa “vincere”, sa? Che poi, diciamola tutta, maschile! Ma se io, oggi, voglio essere Sofia per tutto il giorno, eh? Che male faccio, se ho voglia di guardare in faccia il mistero, di mordere l’altra metà della mela. Insomma, se sono stanco di questa maschera di civiltà che Lei vuol farmi a tutti i costi indossare, Le sembrerà ancora sufficiente darmi del “Vittorio”? E poi, anche sul significato avrei da ridire: io non ho mai vinto niente, nemmeno alla lotteria, figuriamoci! E mi chiamano Vittorio!”

Ha un documento di identità con sé?”

E perché mai dovrei averne uno? Non ho bisogno di documenti, per riconoscermi. Almeno, non ancora. Piuttosto, non potremmo annusarci, come fanno, con grande soddisfazione, gli ippocampelofantocamaleonti e anche i gatti? E’ un metodo molto più preciso, sa? E saprebbe molte più cose di me. Ma a Lei non interessa sapere niente di me, lo so bene. A Lei basta un nome.”

No, a me non basta il suo nome. Io voglio anche un documento. Oppure dovrò chiederle di seguirmi al posto di comando.”

Lei pecca di ironia, sa?”

Sì, lo so. E’ per questo che ho scelto la carriera militare.”

Pensi, per me, invece, l’ironia è il farmaco che mi tiene in vita.”

Guardi, non glielo chiederò un’altra volta: favorisca un documento.”

Don Vittorio, ma che gradita sorpresa!” Proprio a questo punto, comparso da chissà dove alle loro spalle, un uomo di poco più basso degli altri due e bruno di capelli, dal volto abbronzato e dal fare deciso e sicuro, anch’egli in divisa, sulla quale fanno bella mostra i gradi bordati di rosso di generale, si avvicina al gruppo. “Cosa succede?” Si rivolge al giovane tenente che, come tutti gli altri, scatta sugli attenti.

Signor Generale, stavamo procedendo ad identificare…”

I tuoi ragazzi mancano di ironia, Goffredo.” lo interrompe lo sconosciuto.

Lo so, è per questo che li abbiamo scelti, Vittorio.”



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