Dialogo di Gianvittorio Lamendica con la Luna o “degli inganni”.

Premessa

Forse qualcuno di voi è a conoscenza della recente scoperta, da parte del sottoscritto e di alcuni studiosi dell’Università di Salamanca, di un volume, in forma di racconto, il quale narra la storia di un piccolo borgo contadino in un tempo indecifrato. I personaggi di tale racconto non hanno il calibro di eroi né brillano per qualità particolari che li rendano degni di essere d’esempio al genere umano; al contrario, essi sono un campionario d’umanità semplice e vivono storie che nulla hanno di diverso dalle storie di ognuno. La particolarità di tale racconto, forse, sta proprio nel poter essere il racconto di tutti, che ognuno vi si può riconoscere.

Il brano che segue, uno dei pochi già tradotti, narra di un dialogo tra tal Gianvittorio Lamendica e la Luna, detto anche “degli inganni”. Esso disvela il senso di inadeguatezza che corrode le giornate di un uomo, Gianvittorio Lamendica, costretto a vivere una vita banalmente semplice ma imposta dalle circostanze, tormentandosi nel desiderio, represso, di realizzare i propri sogni. In questo, tale brano può essere di monito a chi, preso negli ingranaggi della vita, dimentica d’aver sognato.

Dialogo:

Dove sei?

Sono qui, come sempre.

Temevo di non vederti più. È così nuvoloso il cielo, oggi…

Sì. Le nuvole! Che strana cosa sono le nuvole. Cambiano forma ogni momento, giocano a nascondere le cose.

Di giorno io le guardo sempre. Mi piace immaginare le forme che assumeranno, riconoscere gli animali, i volti delle persone ma se qualcuno mi vede, mi vergogno e fingo di osservare qualcosa nel cielo; qualcosa di più serio, un aereo. E faccio un’espressione corrucciata, così, come se stessi pensando a qualcosa di importante.

Tu credi che la gente non faccia come te? Pensi di essere l’unico uomo a guardare le nuvole e perderti con la fantasia?

Non so. Però di notte, no. Di notte le nuvole sono nere e mi fanno paura, sembrano portare cattive notizie. E poi, di notte, mi impediscono di vedere te. Di notte io cerco te, Luna.

Lo so. Mi parli sempre. Con voce sempre diversa, con animo mutevole. Sei sempre meno sereno…

Come sei bella, stanotte, Luna! Bella e…

… e graziosa, e placida. E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna e di lontan rivela serena ogni montagna. E tu? Quali versi mi dedicherai, tu?

Complice, sorella, amante mia. Tienimi con te. Tu sveli gli inganni…

Nelle notti di luna piena ogni inganno si disvela e tutto appare nella sua realtà. Ma continui ad usare parole che non t’appartengono.

Sì. Ed io sono stanco di ingannare. Ma ingannare poi chi se non me stesso, fingendo di essere ciò che non sono: un porto sicuro nella tempesta della vita, sempre dalla parte della ragione e mai del torto, pronto a giudicare e condannare. E sempre ad auto assolvermi.

Credi che il mondo si aspetti qualcos’altro da te? Qualcosa di diverso da ciò che sei? Per questo indossi la tua maschera?

Bella maschera, davvero! Da una parte mi permette di presentarmi al gran ballo degli uomini e dall’altra mi consuma, uccide lentamente i miei sogni. Ogni giorno un po’ di più. Io me ne accorgo ma non riesco a fare niente.

Davvero! Siete strani voi uomini: mi guardate nelle vostre notti insonni, mi sospirate i vostri amori, piangete supplichevoli perché accarezzi i vostri dolori inconsolabili, giocate ad inseguire gli aquiloni dei vostri pensieri e poi, appena le fredde luci dell’aurora vi illuminano, correte ad indossare le vostre maschere orrende e giocate un altro gioco, quello dei capitani d’industria, degli squali della finanza. O peggio! Se al peggio può esserci un limite, voi lo spostate ogni giorno più in là.

È la civiltà.

La chiamate civiltà, sì, la chiamate civiltà. Non è una bella parola, vero, civiltà?

Io sono un vigliacco, Luna. Non ho il coraggio di strapparmi di dosso questa maschera alla luce del sole, davanti al mondo. Per questo, ti prego, lasciami venire con te, ora, mentre il mondo dorme e non mi vede partire.

Io non so quando hai iniziato a fingere. Ma che importa saperlo? Basta smettere.

Non ci riesco.

Ascolta! È una musica bellissima, la senti? È la tua musica. Forse tu non la senti più ma un tempo non era così, un tempo la ascoltavi. Ed eri felice.

Ora riesco ad esserlo solo se ci sei tu, Luna.

Vieni! È tutto pronto. Ti sei inebriato della libertà che io ti ho donato. Ora devi ricordare. Ricorda il sogno che ti accompagna, ogni notte, quando rinunci a lottare e ti abbandoni all’oblio.

… una montagna. La roccia fredda, io faccio fatica ma riesco a salire. Mi arrampico e poi…

Poi sei solo, sulla cima. Davanti a te si apre un immenso paesaggio di boschi e colline e pianure e…

E il vento mi accarezza. E mi sostiene...

Allarga le ali, gabbiano. Allarga le ali e salta!

Mi lascio andare…

Stai volando, libero, insieme agli altri gabbiani, liberi. Siete felici.

E scendo giù, a sfiorare le cime degli alberi. E poi su, verso di te! Ti raggiungo, Luna. Ora posso volare.

Ora sei un gabbiano.

Prendimi con te! Ora puoi. Liberami dagli affanni di una vita che non ho chiesto.

Ma non è volando che puoi raggiungermi.

E come allora?

Guarda! Davanti a te ho steso un sentiero. È l’unica strada che porta fino a me. Ma non possono percorrerlo gli uomini, perché il peso del loro dolore li farebbe sprofondare. Solo le anime pure, come puri sono i bambini, riescono ad attraversarlo. Ma a loro non interessa farlo, perché sanno essere felici ovunque.

Ed io?

Tu lo puoi percorrere solo se lasci dietro di te ogni dolore, ogni maschera ed accetti di essere fragile come un bambino.

Ho paura di cadere, Luna.

Allora rinuncia.

No! Non mi fermerò.

Sì! E ora corri, Gianvittorio! E dimentica. Dimentica ciò che sei, il tuo sapere, dimentica le tue convinzioni, dimentica la paura.

È da tanto che ti cerco. Tu hai il volto del mio amore. Ma questa volta non mi mancheranno le parole…

Le parole non dette sono fiori non sbocciati. Ma qui non servono parole. Senti? È la tua musica.

È meravigliosa, Luna!

Sì. La tua musica parla di te al tuo amore. E non ci sono inganni. Quando io ti guardo e tu mi guardi, io so tutto di te e tu sai tutto di me. E non c’è perdono. E non c’è colpa.

Non c’è colpa…

Sii felice, Gianvittorio. Sii felice! Come è felice un bambino felice.

Sento il profumo delle zagare, Luna.

E del grano maturo…

E le lucciole, Luna! Le lucciole sono così belle…

Tu sei una lucciola…

…          

E così Gianvittorio Lamendica scivolò in un quieto e lento oblio e quella notte sognò di essere una lucciola in mezzo a milioni di altre lucciole e sognò il profumo delle zagare nelle campagne. E sognò di tante altre cose e luoghi mai visti. E fu felice. E sognò di Lei, dei suoi occhi dolci e puri che non era mai riuscito a guardare.

E, tenendole la mano, il suo cuore Le parlò con note meravigliose, e Le parlò con colori mai visti, e di come e di quando, e non so più di cosa. E quel canto arrivò fino alla Luna, e la Luna sorrise. Ed in quel sogno, povero e infantile, Lei gli disse: “T’amo”.