La polvere della Storia.

Photo by Raphael Brasileiro on Pexels.com

Erano circa le due del mattino quando bussarono alla porta. Mi alzai controvoglia da quello che nelle ultime ventiquattr’ore era diventato il mio habitat naturale. Quell’ammasso di poltiglia di cuciture e cuoio, rossastro e becero, sbiadito e insipido che nel regno animale umano viene ingenuamente chiamato: divano!

Mi alzai controvoglia, ripeto. Non aspettavo nessuno e tantomeno vedere qualcuno. Lasciatemi in pace, pensai, bestemmiando tra i denti. Una settimana fa mi hanno licenziato perché “dalle statistiche risultavo poco produttivo”. Licenziato col bacio accademico, con la benedizione. Punto, fine della storia. Licenziato con medaglia al valore, con tutta una serie di leccate e masturbazioni linguistiche metaforicamente insulse e prive di contenuto, tipo: “la sua prestazione per noi è stata importantissima… la ringraziamo per il servizio costruito con passione… l’attenzione che abbiamo per lei è solo pari a… il nostro scopo è simile al suo perché noi tutti, in fondo, siamo meravigliosi esseri… e basta così, altrimenti mi sale di nuovo la nausea. Scopo simile? Ringraziamo? Attenzione? Importantissima? Cazzate! Indigeste e sonore Cazzate! In realtà percepivo quello che davvero mi stavano dicendo: ” si, si, lei è importantissimo bla bla bla, ma ora si levi dai coglioni, qui abbiamo da lavorare, ci sta facendo perdere tempo, cristo, dobbiamo produrre soldi, un mare di soldi, ancora soldi, cosa cazzo ci fa ancora qu? non si è ancora levato dal cazzo, porca troia, fosse per noi le avremmo mandato una lettera con qualche augurio del cazzo e a mai più rivederci e invece siamo ancora qui a fingere che ce ne freghi qualcosa di lei e di tutti gli altri stronzi come lei, dio santo, ma cosa aspetta ad andarsene? vuole un pacca sulla spalla? una parola di conforto, un celebre discorso di addio, una coppa d’argento, un saggio aforisma di buona vita? si levi dai coglioni, cristo! e impari a vivere, inutile ragazzino piagnucoloso! se ne vada! dobbiamo fabbricare denaro, qui! ci servono macchine non pigri, bestie non corpi, burattini non…”

Ecco cosa hanno detto in realtà. Ma in realtà non lo dicevano. Loro parlano un’altra lingua. Questo l’ho tradotto. Ho ancora un linguaggio, io. Loro, no! Loro sono… qualcos’altro.

E quindi… sono senza lavoro… mah! Non è che me ne fregasse più di tanto. Meglio disoccupato che nevrotico, dico io. Quello era un posto di merda, non ci si guardava neanche più in faccia. L’unica volta che ti guardavano negli occhi era quando dovevano chiederti qualcosa che non potevano fare da soli. Serviva una mano, agli stronzi… e allora giù con i “caro… tesoro… ehi, compare… amico mio senti un po’… e altre cazzate che non sto qui a ricordare. Dio, eccola qui… la nausea salì rapida come un orgasmo mal celato. Ero in pedi a chiedermi ancora chi fosse a quell’ora. Non mi andava di vedere nessuno. Del resto non avevo più nemmeno un amico. Erano tutti a lavorare al “gran cantiere”, giorno e notte, stremati, senza nemmeno una pausa per pisciare, per mangiare. Niente!

Il Gran Cantiere era un’area di ventimila chilometri dove gli uomini, se così si potevano ancora chiamare, erano suddivisi in settori. C’erano gli “scavatori” che scavavano e scavavano all’infinito senza sosta. Non vedevano la luce del sole da anni, tanto da pensare che il mondo fosse stato concepito al buio. Poi c’erano i “selezionatori”, cioè quelli che selezionavano il materiale scavato per distinguere la merda dall’oro, il fumo dall’ossigeno, il cancro dalla vita. Infine c’erano gli “assaggiatori”, relitti informi destinati a mangiare e ingoiare ogni sorta di prodotto e materiale tirato fuori da quell’oceano infinito di caverne, grotte e sentieri senza fine. La vita media di un assaggiatore è all’incirca un anno e mezzo, poveri diavoli, nessuno li invidiava.

Bussarono ancora… maledizione. Le luci erano spente, forse avrebbero pensato che non ci fosse nessuno. Rimasi in silenzio, immobile. Chiunque fosse se ne sarebbe andato, prima o poi.

Il Grande Cantiere aveva lo scopo di costruire un ecosistema vivibile dopo l’ultima esplosione. Dopo quel fatidico giorno, dove tutti i computer del mondo decisero di fondersi in un unico scoppio infernale, talmente tanto forte che lo sentirono pure gli Dei, talmente tanto assordante che il novanta per cento degli esseri umani diventò sordo e il cinque per cento cieco, la vita era diventata insostenibile. Senza i computer la gente era disorientata, non sapeva gestire il tempo, non sapeva più parlare senza uno schermo, non esisteva più una lingua, tantomeno nessun linguaggio che non fosse generato da un ammasso di saldature a stagno e gelido metallo raffinato. Ci fu l’anarchia.

I Governi crollarono come la borsa in quel lontano 1929.

I pochi sopravvissuti dotati ancora di brandelli di vocabolario fondarono una confraternita: la Confraternita dei Sempiterni. Ricostruirono una nuova lingua, una nuova educazione, un nuovo governo. La lingua che crearono non è certo la lingua con cui ora sto parlando. Io parlo ancora la vecchia lingua, ma solo quando sono solo, quando sono con loro parlo il loro schifo. La loro lingua è fatta di simboli, cifre. Sono incapaci di poesia, di metafore, di racconti, di lacrime… i computer sono morti e allora hanno pensato bene di diventare loro stessi dei computer. Dio! eccola qui… nausea!

Non riuscii a trattenermi. Il conato era implacabile. Vomitai su quello che un tempo era il mio tappeto. Vomitai roba blu. Cristo, questo dev’essere l’ossigeno…

Bussano ancora, con insistenza, con forza. Che vadano a farsi fottere. Non mi interessa. Sapete, a me questa situazione non dispiace affatto. Hanno bruciato il mondo? E’ crollato il sistema vitale che abbiamo sempre conosciuto fin dall’alba dei tempi? Ben vi sta! Ve lo siete cercato. Ve lo meritate, chiudete la bocca e godiamoci questi attimi di dolce tormento fino la fine totale! Gli Dei, là sopra, se la godono, ma non sanno ancora che tutta questa merda raggiungerà anche loro. Oh, se li raggiungerà. Siamo tutti coinvolti nessuno escluso. Respiro ancora un po’ di questo schifo e torno sul divano, pensai, quando al di là della mia porta sentì come un lamento. Sobbalzai!

Somigliava al verso di un gatto, ma era impossibile, maledizione! I gatti erano estinti da secoli.

La nausea fece spazio al terrore. Rimasi in silenzio pensando fossi preda delle allucinazioni. Era molto probabile, visto che da decenni, gli elementi nell’aria erano mutati drasticamente e la nostra struttura biologica non era più la stessa. In effetti, c’erano giornate in cui il cielo lo si percepiva come un enorme telo di lana, altri giorni diventava come una pelle di un serpente; oppure potevi camminare per strada e vedere ombre che ti attraversavano il corpo per poi voltarti e riconoscere che eri irrimediabilmente solo. Percezione… tutto qui. Si… si… mi dissi, mentre mi asciugavo il sudore gelido che colava dalla fronte, sarà stata un’allucinazione. Ora, calmati, stenditi e lasciati morire. Mentre provavo a dialogare col mio cervello, tentando di inviare l’impulso elettrico e quindi il comando alle mie gambe “muoviti, cammina” successe di nuovo…

Quel lamento! Quel suono stridulo fuori dalla porta! Persi la calma! Pensai subito all’ennesima vigliaccata dai piani alti. Maledetta Confraternita! Fottuti Sempiterni! Hanno messo qualcosa nell’aria, di nuovo… qualcosa di più velenoso, che induce alla pazzia, alle fottute allucinazioni! A grandi falcate arrivai alla porta, la spalancai e nella mia lingua, nel mio antico linguaggio urlai con tutto il singhiozzante e malato respiro che compose tutto il mio essere!

“Lasciatemi in pace! Inutili, bastardi assassini!”

Urlai fino a perdere la voce. Urlai per gli Dei, per le ombre che vedevo ogni giorno, per i morti sordi e ciechi, per le anime perse nel centro della terra, per il cielo di serpente. Urlai fino a cadere in ginocchio. Ma una volta a terra, per un attimo, il mio cuore sospese la sua danza. Un breve attimo che sembrò lungo quanto tutta una vita.

Di fronte a me… una donna piangeva. Ero ancora frastornato, non riuscivo a capire cosa dicesse. Era magra, insanguinata. Stava morendo. Rimasi pietrificato.

Le donne erano estinte da secoli.

Stringeva qualcosa. Tra le braccia portava un ammasso di stoffe. Non riuscii a dire niente. Avevo almeno un milione di cose da dire, ma volevo dirle tutte, volevo dirle tutte insieme, così, la mia bocca non riuscì ad emettere suono. Era come se il mio cuore non fosse più ripartito! Carica finita! Energia esaurita, come quando, senza volerlo, ti ritrovi di fronte ad un miracolo.

La donna si accasciò, arrancando nella sua lingua. Ormai non aveva forze. La vidi morire senza far niente. Riuscii a muovermi solo quando il suo corpo di immobilizzò, divenne di pietra, come una statua scolpita da un crudele artista, in una disumana movenza colta di sorpresa tra la vita e la morte. Ancora in ginocchio, paralizzato presi la stoffa che teneva stretta tra le braccia e la aprii.

Due occhi mi guardarono come si guarda un dio benevolo. Un bambino. Un neonato ancora sporco di sangue. Il cordone ancora legato alla madre. Non so quanto rimasi lì, in ginocchio, con la vita tra le mani, Ore, forse giorni. Non so se quello che sentivo era piacevole o spiacevole, doloroso o pieno di quella cieca felicità che ti toglie il fiato… non lo so. So solo che guardai quegli occhi come si guarda la propria triste, insulsa e malinconica storia.

D-D