Passo a due

Paturnie su un “Romanzo in sette capitoli, sette ricordi, un prologo e un epilogo”.

E’ finito. Almeno, è finito fino a quando non lo riprendo, e allora scopro centinaia di modifiche da fare, frasi da cambiare, parole da sostituire. Accade ogni giorno. Però, è finito. La storia è completamente diversa dalla sua prima stesura; sì, molto diversa. Lo guardo, inizio a rileggerlo e mi torna la voglia di modificare. Allora, lo faccio leggere a qualcuno. Ma ci vuole tempo, non è una cosa che si legge in un’ora, un giorno. Ci vuole tempo ed io non ho tempo: voglio sapere subito! “Cosa te ne pare? Qui, non ti sembra un po’ troppo? E qui, che ne dici se cambio in questo modo?” Le persone mi guardano, poi prendono il manoscritto e se ne vanno da qualche altra parte, a leggere con calma.

No, non va bene. Mi ripeto che è finito e che devo smetterla di riprenderlo in mano. E’ andata, è così, ormai. Come un figlio, viene su da sé, tu puoi solo cercare di dargli tutto quello che sai. Però, non visto, osservo la faccia di Carmelina: lei è una delle persone alle quali ho chiesto di leggere il mio manoscritto lungo come un romanzo, anche se io non oso chiamarlo così, lo chiamo racconto. Dentro di me, però, so che è un romanzo, l’ho anche scritto sull’intestazione: romanzo in sette capitoli, sette ricordi etc. Mi piacciono i titoli lunghi. Qual’è la storia? Questo è un segreto. Guardo la faccia di Carmelina, mentre legge. Ha sollevato gli occhi, sospira. Che significa? Si sta annoiando, di già? Sono passate solo poche pagine! Le chiedo: “ti piace?” Lei mi risponde che ha appena iniziato a leggere.

Andrò in vacanza, penserò ad altro. Sì, cercherò di concentrarmi su un’altra storia lunga che ho iniziato a scrivere a mano a mano che Passo a Due si avvicinava al suo epilogo. Farò così. Al mio ritorno, guarderò le loro facce. Il loro giudizio è importante, per me; sono persone che contano, per me. E se non gli piacesse? Non lo sopporterei, ovvio. Però, sarebbe peggio se mi dicessero che gli è piaciuto solo per tenermi contento. La parte peggiore di un romanzo, inizia quando lo hai finito; questo non lo sapevo.

Ad ogni modo, se qualcuno volesse dare un’occhiata e dirmi cosa ne pensa, questo è un pezzetto del Prologo. Lo so che è solo un prologo e che la storia comincia subito dopo, ed è completamente un’altra storia, ma almeno ditemi cosa ne pensate. Piano, però, ditemelo piano.


Prologo

Il sole sta sorgendo, di nuovo, meraviglioso. Intorno a me, il canto degli uccelli che salutano il nuovo giorno, come fanno da sempre, ogni giorno. Il ficodindia, i vasi con le malve e i gerani che ho piantato: la mia famiglia.

Io resto immobile, su questi gradini di pietra consumati dal tempo e dagli uomini, cercando di sentirmi parte di questa meraviglia; controllo il respiro, mentre anche l’aria intorno a me diventa immobile. Ogni cosa è immobile, in attesa. Solo il canto degli uccelli.

Quante albe ho visto, seduto su questi gradini di pietra? Da quanto aspetto, contando i giorni? Faccio un rapido calcolo, non è complicato, in fondo: saranno centoventi, più o meno. Centoventi albe che mi scoprono qui, seduto a guardare il mare farsi nero e scomparire. Centoventi notti che aspetto di andarmene. Dietro di me, dietro quella porta, c’è la mia valigia. Dentro ho messo il computer, i miei libri preferiti e una foto di Marta. Non mi serve altro, sono pronto. Carlo non ha bisogno di niente, lui ha me.

Mi sento vecchio. Ieri ero giovane, ma oggi sono vecchio. Guardo le mie mani, non sono quelle di un vecchio, neanche la mia faccia lo è; i miei muscoli rispondono ancora, non sono più agile come una volta ma non posso certo lamentarmi; eppure, è questo che sono, lo sento: vecchio. Le guardo, le mie mani e mi chiedo cosa hanno fatto, cosa ho costruito con loro. Mio nonno aveva delle mani grandi e callose. Di lui ricordo poche cose, ricordo che teneva il suo cappello su, in alto, e si divertiva a guardarmi, mentre cercavo di prenderglielo, lassù nel cielo. E mi ricordo delle sue mani, quando mi accarezzava. Erano mani ruvide, le mani di un contadino; eppure, la sua carezza era dolce. Non ricordo altro, di lui.

Mi guardo intorno, alla ricerca di cosa, poi? Come ho fatto ad arrivare fin qui? Non ricordo di aver vissuto; forse, la corrente mi ha portato su questa riva, su questo scalino di pietra consumata, che io chiamo casa. È importante, avere un posto dove tornare, quando non sai più dove stai andando. Una casa.

Un cubo di tufi messi uno sull’altro da gente che non conosco e per chissà quale motivo, è diventato il mio giaciglio, il tetto sopra la mia testa, il mio riparo. Per essere anche casa, dovrebbe custodire degli affetti, dovrebbe essere un nido dove crescere i piccoli, tenendosi mano nella mano. Una casa canta con gli uccelli, al mattino. D’estate, i tufi ridono insieme ai bambini, al sole. D’inverno, si stringono tutti insieme per ripararsi dal freddo e raccontarsi storie. Quante storie possono raccontare, questi vecchi tufi! Anch’io racconto storie, ma le mie sono storie inventate, buone solo per passare il tempo.

No, questa non è una casa. È solo un vecchio cubo di cemento e tufi: non c’è nessuno, accanto a me; nessuno dietro quella porta alle mie spalle, che aspetti il mio rientro, un abbraccio. Solo i vasi con le malve e i gerani, e il ficodindia, a farmi compagnia.

Prima o poi, mi deciderò a piantare un limone. Io adoro i limoni. Ne ho uno, piccolo, che sto svezzando in un vaso. Presto lo metterò lì, accanto al ficodindia, di fronte al mare. Chissà se gli piacerà, stare di fronte al mare. Spero di sì.

Nella testa ho il ricordo di tante voci, di tanti volti. Dove sono finiti? Li sto dimenticando, gli sto dicendo addio. Non posso portarli con me, dobbiamo partire da soli, io e Carlo. Per questo, scrivo i miei ricordi. Questa notte, ho scritto di lei, di Marta. Non è stato facile.

Quando la luce del giorno si affievolisce, mi siedo qui; porto con me una candela, il mio diario, una penna. E aspetto: mi restano a decine i ricordi, a centinaia i rimpianti. Li guardo saltarmi addosso, farsi padroni dei miei occhi. Cieco della realtà, mi osservo mentre la memoria riproduce un vecchio film di sentimenti non vissuti, non gridati, ma sepolti. Sparpagliati sul pavimento del mio cervello, infranti in mille geometrie microscopiche, mi sorprendono, inerme e incapace di difendermi. Ma difendermi, perché? Come l’archeologo osserva i resti di una civiltà un tempo fiorente, io osservo me stesso giacente, disgregato, incompleto.

Ho giocato alla roulette

tutto ciò che mi è rimasto

le ultime fiches del destino e aspetto

un numero, uno

qualsiasi numero, soltanto uno

qualunque numero, almeno uno

che sono stanco di sentire il cuore sussultare

e vorrei solo sdraiarmi accanto a te

e chiudere gli occhi, e lentamente

non sentire le voci, dimenticare i rumori

accarezzare soltanto i tuoi capelli

e il silenzio che lentamente si fa

intorno a te, quando io ti guardo.

Che mi importa se sono come sono,

se non sono come dovrei essere

se tu mi sorridi e così mi condanni!”

Ho scritto questi versi tanto tempo fa, per lei. Cosa sono diventati? Ricordi? Rimpianti? Il peso dei rimpianti supera di molto quello delle speranze. Mi chiedo quanto pesa un rimpianto. Non lo so. Ne raccolgo uno, ma non sento il peso. Lo rigiro tra le mani, curioso, e provo a rimetterlo a posto ma lo specchio è rotto e troppo larghe sono le sue crepe per sapere dove sistemarlo. Lui intanto continua a sanguinare. I rimpianti non dimenticano, mi dico.

Ho giocato le ultime fiches alla roulette

ma cosa importa,

se ho vissuto …”

Davvero, ho vissuto? La memoria è labile e ingannatrice, solo i rimpianti sono fulgidi, brillanti e chiari. I ricordi invecchiano con me, muoiono nel buio della dimenticanza. Solo i rimpianti sono compagni fedeli. Un rimpianto è per sempre. Quando avrò scordato, un po’ alla volta, a pezzi, quando avrò dimenticato ogni cosa, allora solo i rimpianti resteranno, in attesa, nel buio. Per questo, scrivo; tutto, ricordi come vengono alla mente, perché non c’è più ordine. La mia testa è una stanza troppo in disordine per poter cercare un filo. Chiunque tu sia, a decifrare queste pagine illeggibili, sappi che esse custodiscono i ricordi di Giacomo.

Giacomo sono io.